“Credevo di essere stato trasportato nel Giardino dell’Eden” – è una delle prime considerazioni scritte dal capitano francese Louis Antoine de Bougainville una volta giunto sulle bianche spiagge di Tahiti, nel 1768. Pensa di essere il primo, ma un inglese l’ha anticipato di almeno un anno. Quest’ultimo è Sir Samuel Wallis e proprio come il collega transalpino, non riesce a credere a ciò che vede al di là del bagnasciuga nell’isola dove probabilmente giace la divina Venere. Ecco come questa terra polinesiana, bagnata dalle cristalline acque del Pacifico, entrò nell’immaginario comune degli europei tra il XVIII e il XIX secolo.
I resoconti di Bougainville non sono affatto di difficile interpretazione. Stando alle parole del comandante, le tahitiane erano delle spontanee sacerdotesse del piacere. Il loro fare naturale, talvolta timido nell’approccio, ma deciso nella pratica, faceva impazzire gli uomini di mare che da mesi, anche anni, non avevano a che fare con il gentil sesso. Cortesi questi tahitiani, come annotava Wallis, che ad ogni visita, sul campo o sulle navi, portavano con loro innumerevoli doni: noci di cocco, piante colorite, manufatti tradizionali, sesso. In cambio non chiedevano nulla o quasi. Solo qualche chiodo, qualche pezzo di ferro, troppo utile per quella società fondata sul legno e sulle foglie. Wallis, consapevole che chiodo dopo chiodo una nave poteva non reggere l’urto delle onde oceaniche, cercò di porre fine a questo scambio di natura erotico-commerciale. Ci riuscì? Beh, non proprio.
Nell’aprile del 1769 James Cook ancorò la nave da spedizione a qualche metro dalla costa tahitiana. Gli isolani si fecero subito avanti, elargendo doni di ogni genere, come al solito. Cook allora scrisse: “Hanno tutti bei denti bianchi, e per la maggior parte nasi corti e piatti e labbra grosse. Eppure i loro lineamenti sono gradevoli. La loro andatura aggraziata, e il loro comportamento verso gli estranei e tra loro è aperto, affabile e garbato”. Anche Cook, attento conoscitore dei resoconti del connazionale Wallis, tentò di regolare i rapporti tra marinai eccitati e indigene persuasive; vanamente. Le donne di Tahiti, belle nell’aspetto e libere nella pratica sessuale, erano un’irrinunciabile fonte attrattiva per gli uomini. Alcuni di questi, pazzi d’amore, scapparono addirittura tra le foreste e le montagne dell’isola in compagnia delle “mogli” locali.
L’equipaggio di una nave, pur di tornare in quel paradiso afrodisiaco da poco abbandonato, giunse all’ammutinamento nel 1789. Lontane mille miglia dalla concezione amorosa occidentale, le tahitiane erano solite comportarsi in quel modo un po’ per tradizione, un po’ per tornaconto comunitario (come si evince dal caso del ferro). L’attrazione reciproca durò un trentennio, neppure. Già dagli esordi del XIX secolo, le malattie tipiche del Vecchio Continente fecero di Tahiti un ecatombe. Quelle veneree giocarono un ruolo di prim’ordine, naturalmente. Circa 50.000 persone vivevano a Tahiti e dintorni prima del contatto con l’uomo bianco. Nel 1797 se ne contavano 16.000 e un decennio dopo arrivavano a malapena a 7.000.
L’impressione che quel popolo rilassato, contento, libero, fece in questa parte di mondo fu tale da ispirare un mito romantico, il quale in parte perdura ancora oggi. Tahiti e i suoi isolani, tramite scritti del già citato Bougainville, contribuirono ad alimentare la novella del Buon Selvaggio, particolarmente cara alla ragione illuminista di Rousseau, ma non solo.
L’isola divenne ben presto il luogo in cui fuggire in preda al morbo dell’amore spassionato. Un mondo diverso, lontano dai rigidi canoni di una società che si apprestava ad entrare nell’inflessibilità vittoriana. L’Europa del mare, delle spedizioni nonché dell’arte spinse per un’idealizzazione di Tahiti e lo fece con eccitante vigore, come denota il mito ancora oggi vivo e persistente.