Non metto due mani avanti, bensì tre. Sulla lettera di cui voglio parlarvi si è detto tantissimo; tra accuse di falso e rimaneggiamento storico, tra chi invece è convinto della sua veridicità e reale esistenza. Pur citando la fonte che per prima regalò al mondo questo scoop epistolare nel 2004, ritengo che, a prescindere dell’attendibilità del documento, si possa ragionare sulla vicenda osservando un fatto storico conclamato: la rottura dei rapporti tra la Jugoslavia di Tito e l’Unione Sovietica di Stalin, consumatasi a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso.
Prima di soffermarmi sul contenuto della lettera, estrapolata dal libro Stalin: A Biography di Robert Service, vorrei dare un po’ di contesto. Nell’ottica di una ricostruzione statale post secondo conflitto mondiale, il Maresciallo Josip Broz Tito si ritrovò in una posizione peculiare all’interno dello scacchiere politico-militare europeo. Ricordiamo che l’uomo simbolo della resistenza partigiana contro l’aggressione totalitaria italiana e tedesca era riuscito a scacciare il nemico senza il contributo massiccio dell’Armata Rossa. Questo fu un punto bonus spendibile in favore di una politica non allineata, che sarebbe diventata poi “terzomondista”.
Per questo motivo l’uomo forte jugoslavo poté dare vita a delle riforme economiche che potrei definire di “autogestione” e “decentramento”. Queste delegarono un grande potere gestionale ai centri produttivi del paese, a differenza dello statalismo dei paesi sotto l’egida sovietica. Attenzione, da qui a parlare di affermato liberismo economico ce ne passa. Pur volendo, a peggiorare le relazioni tra i due grandi Stati comunisti furono le questioni estere. Tito, per chiare ragioni geopolitiche, appoggiava ad esempio i comunisti greci durante la Guerra Civile. La cosa non andava giù al leader georgiano, saggiamente preoccupato per una vittoria rossa nell’Egeo. Tale evenienza avrebbe intaccato ancor di più i rapporti con l’Occidente (in questo caso direttamente chiamato in causa fu il Regno Unito, e con esso gli onnipresenti USA). Non ne valeva la pena insomma, soprattutto in un momento storico in cui da una parte avevano l’atomica, dall’altra ancora no.
E poi come non citare il progetto di una grande Federazione Balcanica a guida titina. Una tale ipotesi avrebbe destabilizzato e non poco gli interessi sovietici nell’area (interessi che passavano da Sofia). La rottura definitiva si consumò nel 1948, con l’uscita della Jugoslavia dal Cominform (l’organizzazione internazionale che riuniva tutti i partiti comunisti europei). Un’allontanamento dal blocco orientale comportò un naturale e conveniente avvicinamento a quello occidentale. Ora, in un contesto del genere, l’anno 1953 è spartiacque, perché la dipartita di Iosif Stalin scombussolò le carte in tavola. A proposito di carte, si dice che tra gli effetti personali dell’Uomo d’Acciaio si trovasse una lettera, firmata Tito.
Il contenuto doveva suonare più o meno così “Smettila di mandare persone ad uccidermi. Ne abbiamo già catturati cinque, di cui uno con una bomba e uno con un fucile. Se non la smetti di mandarmi sicari, ne manderò io uno a Mosca, e non avrò bisogno di mandarne un secondo.” – il riferimento ai numerosi attentati falliti alla persona di Tito è evidente.
Che sia vero o meno, la lettera può simbolicamente rappresentare la tensione tagliente tra due paesi in seno al comunismo, ma distanti come non mai nella visione programmatica dello Stato. Chissà se nella mente del Maresciallo, con la penna in mano, rimbalzarono parole simili a quelle fortunate di Dalla. Caro Amico (Iosif) ti scrivo (per minacciarti)…