Litigare, spingere, insomma sgomitare per l’Africa (scramble for Africa) divenne ordinario durante gli anni che intercorrono tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Una tendenza, quella del colonialismo, che allo scoppio del secondo conflitto mondiale si presenterà nei seguenti termini: il 90% del Continente Nero era sotto dominazione coloniale europea. Tutti parteciparono a quella corsa, nessuno escluso. Anche i tedeschi del kaiser Guglielmo II ebbero voce in capitolo, dando vita ad episodi storici terrificanti. Shark Island, anche nota come “Isola della Morte”, è l’amplificazione simbolica di questa folle pretesa. Procediamo.
Namibia, anzi, Africa Tedesca del Sud-Ovest. Gli Herero, popolazione di etnia Bantu stabilitasi sul territorio namibiano intorno al Seicento, lottano contro i colonizzatori bianchi dal 1884, anno in cui Berlino ha dichiarato il possesso di quelle terre a nord del fiume Orange. Certamente gli Herero non sono gli unici a ribellarsi, i Nama ad esempio furono i primi, ma mai, precedentemente al 1904, si era riusciti a mettere in difficoltà l’invasore bianco. Eppure agli esordi del nuovo secolo, un uomo di nome Samuel Maharero cambiò le carte in tavola. Egli scatenò una sommossa in grado di bloccare il sistema coloniale nel Sud-Ovest, causando la morte di circa 150 tedeschi. Come osavano dei selvaggi attaccare, uccidere, ribellarsi ai civilizzatori teutonici? Berlino si pose la domanda e trovò in fretta una soluzione.
Un cambio al vertice segnalò la presa di posizione dell’impero: l’ascesa a governatore del Tenente Generale Adrian Dietrich Lothar von Trotha significava solamente una cosa, repressione totale. Su personale ordine, il fidato del kaiser perseguitò ogni Herero che non avesse voluto abbandonare la propria terra. Chi restava entro i confini finiva in strutture di internamento e sfruttamento. Complessi che, attraverso il lavoro forzato, rappresentavano la strada più veloce verso la morte. Vi ricorda qualcosa? Esatto, campi di concentramento nel senso contemporaneo del termine.
E qui andrebbe chiarito un aspetto. A Cuba nel 1898 e poi nel Sudafrica tre anni più tardi, rispettivamente americani e inglesi si cimentarono in tecniche concentrazionarie di innegabile violenza. Il discrimine tra l’episodio namibiano e gli altri due appena citati, elemento che ci permette di fare una distinzione tra le esperienze, è che nel caso tedesco la costruzione di campi di concentramento aveva come fine ultimo lo sterminio della popolazione residente. Von Trotha, preciso com’è, mette nero su bianco il dichiarato intento massacratore. Cosa che invece (almeno sulla carta) inglesi e americani non prefissarono, pur falcidiando vite su vite, sia chiaro. Tornando a noi, il Tenente Generale indicò l’isola di Shark Island, al largo di Lüderitz, come luogo per il concentramento della forza ribelle.
L’isola si prestava particolarmente bene al servizio per tre motivi: era impossibile scappare; il presidio armato tedesco era particolarmente corposo; gli internati avrebbero lavorato fino allo stremo delle forze per lo sviluppo infrastrutturale della regione. Da Shark Island le aziende tedesche potevano prendere in prestito gli schiavi, tra cui donne e bambini, e fare di loro ciò che più si desiderava. La morte di un “servo” non era un problema, l’importante era comunicare il decesso all’autorità. A ciò aggiungiamo stupri, violenze di ogni tipo, costrizioni inimmaginabili. Quell’isola arida, colpita costantemente da un freddo vento, causò la morte di migliaia di persone (circa 3.000). La repressione terminò nel 1908, con l’uccisione di 40.000 Herero. Dell’intera popolazione ne sopravvisse il 25%, mentre i Nama furono dimezzati.
Ci tengo a concludere questo articolo con le parole di uno studioso tedesco, lo storico Jürgen Zimmerrer, che a parer mio racchiudono alla perfezione il significato di questa terribile esperienza colonialista. Egli afferma: “In Africa, la Germania ha sperimentato i metodi criminali che in seguito ha applicato durante il Terzo Reich. Ad esempio attraverso la colonizzazione dell’Europa centrale e orientale. C’è una tendenza tra il pubblico a considerare il periodo nazionalsocialista come un’aberrazione di una storia umana altrimenti illuminata. Ma il coinvolgimento con la nostra storia coloniale ci mette di fronte a una tesi più scomoda”.