I 54 giorni che vanno dal 16 marzo al 9 maggio 1978 furono fra i più bui e nefasti per la Prima Repubblica italiana. L’uomo simbolo del centro-sinistra, 5 volte Presidente del Consiglio dei Ministri, segretario della Dc, partito di maggioranza dell’epoca, e soprattutto persona, come chiunque su questa terra, subì una fine che nessuno immaginava e che nessuno merita. Il Rapimento Moro fu uno scossone nazionale ed internazionale. Una fine violenta di un uomo che aveva ampliato le proprie prospettive e quelle del Paese.
Per capire cosa stava accadendo bisogna fare prima il punto della situazione. Fra il ’63 ed il ’68 ci furono in Italia quelli che furono definiti i governi di centro-sinistra organico, a guida dello stesso Moro. L’aggettivo li contraddistingue da quelli precedenti, in cui il PSI dava solo appoggio esterno. In tali governi invece il Partito Socialista faceva effettivamente parte dell’esecutivo. Ma non era questo ciò che preoccupava.
A preoccupare era la progressiva apertura e l’allargamento di orizzonti che Moro aveva. Pareva guardare infatti sempre più a sinistra. E più a sinistra c’era il Partito Comunista Italiano (PCI). Ma non poteva e non doveva stare al governo, in nessuna salsa ed in nessun modo. Questo era quanto trapelava da Washington, e anche dall’estrema sinistra, che lo sancirà in maniera tragica con la morte di Moro stesso.
Pare infatti che poche settimane prima del rapimento, il 16 febbraio 1978, durante l’ultimo incontro segreto tra Moro e Berlinguer, il leader pugliese dicesse: “Gli uni contro gli altri non possiamo niente. Bisogna che ce ne rendiamo conto“. 12 giorni dopo in parlamento, per non destabilizzare la situazione interna ed internazionale, edulcorava il discorso, parlando di “accordo misurato, moderato e significativo“.
Ancora una volta cercava dunque di non spaventare l’alleato d’Oltreoceano. In quei giorni concitati infatti, Richard N. Gardner, ambasciatore USA in Italia dal 1977 al 1981, incontrava i vari leaders, proponeva comunicati e faceva pressioni affinché si bloccasse la pericolosa deriva verso il PCI. Anche il presidente Carter era estremamente brutale circa la situazione. Non si poteva e non si doveva cedere di un solo passo verso sinistra.
In tale clima si arrivò al famoso, quanto triste, 16 marzo. Non era un giorno qualunque. Quella mattina si doveva votare la fiducia al nuovo governo Andreotti, che manteneva dunque il PCI nell’ottica di governo. Le Brigate Rosse evidentemente non erano d’accordo, tanto quanto, se non più, degli USA. “L’attacco al cuore dello Stato era cominciato”, il buio calò sulla Repubblica Italiana.