Il 21 aprile del 1967 segna un momento di non ritorno nella storia contemporanea greca, una cesura col passato, un fulmineo cambio di regime che da una parte rovesciò un governo debole ma democraticamente eletto, e dall’altra favorì l’instaurarsi di una dittatura d’ispirazione ultranazionalista (per non usare termini che andrebbero usati, eccome se andrebbero usati), anticomunista, oppressivo nei confronti delle fondamentali libertà costituenti. In quel famigerato aprile la Grecia svestì una stracciata tunica democratica, preferendo una formale divisa militare, possibilmente di colore nero.
Ritengo sia necessario fare non uno, ma due passi indietro nel tempo per comprendere a fondo il significato di quella deriva dittatoriale. La Grecia del secondo dopoguerra era un paese ancora in lotta. Dal 1945 e per ancora quattro anni, nel paese infuoca la guerra civile. Secondo gli accordi di Jalta, la penisola affacciata sull’Egeo doveva cadere tra le braccia dell’influenza occidentale, espressa da UK e USA. Tali accordi comunque non escludevano un ascendente, seppur moderato, dell’Unione Sovietica. Stalin però non vide mai nella Grecia uno scacchiere sul quale muovere le proprie pedine, perciò prevalsero gli interessi del blocco occidentale. Tradotto: con il defilamento britannico, si impose l’invadente guida statunitense. Questa aveva interesse nel contrapporsi alle fazioni di sinistra (vicine ai dettami socialcomunisti e perciò proibite). Nel farlo gli agenti americani favorirono la componente di destra, a sua volta caratterizzata (in larga parte) da particolari “nostalgie” facilmente intuibili.
Gli anni comunque trascorsero nell’instabilità politica e sociale, ma l’ossatura democratica resse agli urti. La situazione si inclinò pericolosamente nel 1965, con l’inizio di una debolissima e litigiosa legislatura. Di certo non aiutava una corona senza polso e in balia del vento che tirava. Dal ’65 fino al ’67 la Grecia, democratica ancora per poco, visse una stagione estremamente turbolenta con governi incapaci di reggere le redini del paese. Tuttavia si aveva la sensazione che un governo di centro, o comunque di centrosinistra, potesse placare gli animi e ricondurre la nazione sulla via della governabilità. Peccato che già dal 1966 una giunta militare di ufficiali d’alto grado stava preparando un colpo di stato d’attuare solamente dopo il verificarsi di due situazioni: un’importante sollevazione comunista nel paese e l’assenso del re Costantino II.
In effetti del piano Prometheus vennero informate anche le più alte cariche dell’esercito, della marina e dell’aeronautica. Persino il re sapeva, anche se non palesava chissà quale simpatia per la cospirazione contro l’impalcatura democratica del paese. Nel frattempo, più in basso nella catena di comando, un organico di ufficiali capeggiato dal colonnello Geōrgios Papadopoulos e composto dai fidati Stylianos Pattakos e Nikolaos Makarezos, fece proprie le direttive del piano. Notando un fastidioso attendismo da parte degli alti vertici militari e la poca convinzione della casa reale, il gruppo di colonnelli decise di attuare il golpe prima del previsto.
Istituita la legge marziale, occupati i principali centri del potere, ottenuto l’assenso dell’irresoluto sovrano (il quale tentò anche un contro-colpo di stato, fallendo e fuggendo in esilio a Roma), la giunta militare fece decadere alcuni dei diritti costituenti più importanti. Veniva meno la libertà di parola, nonché quella personale. La “Dittatura dei Colonnelli” perseguitò ogni genere di opposizione politica, anche se lontana mille miglia dalle posizioni di sinistra. Il dissenso non era accettato, perciò i più “fortunati” sperimentarono l’esilio, mentre tanti altri finirono nelle carceri della polizia militare. Là, dove le torture non conoscevano fine e la forza bruta serviva a cancellare quelle “distorsioni comuniste” pericolose per il nuovo ordine. La reazione anti-regime comunque c’è, condotta prevalentemente da cellule clandestine di studenti e intellettuali. Spicca il nome di Alexandros Panagulis, oggi eroe nazionale greco.
Panagulis, allora membro liberale della resistenza greca, ordisce un attentato a danno di Papadopoulos. Il piano fallisce e l’uomo finisce in prigione, dove subirà atroci torture, sia fisiche che mentali. L’opinione internazionale condanna la decisione e la violenza della giunta, che già non godeva di chissà quale prestigio. La pressione politica e mediatica fece cambiare idea al regime, che scarcerò Alexandros Panagulis nel 1973. Morirà tre anni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Tuttavia la liberazione del dissidente scosse e non poco le fragili fondamenta della dittatura. Dagli anni ’70 Papadopoulos diede vita ad un progressivo allentamento della morsa militare sul paese. Le riforme confusero e divisero gli ufficiali che fino ad allora lo avevano sostenuto. L’allora primo ministro si alienò tanto le simpatie dei più intransigenti quanto l’appoggio delle componenti filo-democratiche.
La sua politica non era né carne né pesce, perciò non piacque a nessuno. La debolezza del regime si manifestò nel 1973, quando la protesta montata dagli studenti del Politecnico di Atene motivò i colonnelli a destituire Papadopoulos, ponendo a capo del governo Dīmītrios Iōannidīs, brigadier generale dell’esercito greco nonché capo della polizia militare. Come spesso fanno i dittatori per distogliere l’attenzione del popolo sulle problematiche interne, anche Iōannidīs giocò la carta della politica estera aggressiva. In particolare il generale, facendo leva su un forte nazionalismo greco, appoggiò un colpo di stato a Cipro. L’isola, da sempre abitata da una forte minoranza turca e da una maggioranza greca, divenne terreno di scontro tra Grecia e Turchia. Quest’ultima infatti intervenne militarmente, decretando la successiva divisione di Cipro, con un nord filo-turco e un sud filo-ellenico. Per Iōannidīs la sconfitta fu cocente.
L’operazione fallimentare nel Mediterraneo orientale convinse la giunta militare a ritirare il proprio appoggio al generale. Il Presidente della Repubblica, Faidōn Gkizikīs, che fino ad allora era stata semplicemente una pedina del giogo dittatoriale, riconvocò in parlamento la pluralità di forze democratiche. Nell’estate del 1974 si formò un governo repubblicano, con l’astensione dei colonnelli. Nel dicembre un referendum popolare confermò la restaurazione democratica e l’abolizione della monarchia. Terminò incruentemente un settennio di sangue, in cui un regime ultranazionalista di estrema destra, simpatico all’Occidente tutto, cercò di imporsi su una scena internazionale imbevuta d’intrigo ideologico e dalla tensione bipolare, fallendo o avendo successo? Dipende dalle prospettive.